Educare all’affettività e alla sessualità
Articolo di Raffaella Iafrate
Credo che valga la pena di riflettere innanzitutto sulla scelta stessa di parlare di educazione all’affettività e alla sessualità
Nella nostra società attuale ci troviamo davanti ad una cultura dominata da uno sbilanciamento a favore degli aspetti emozionali a discapito di quelli valoriali con un’affettività sradicata dall’ethos, da una prospettiva di senso, percepita come pura saturazione di un bisogno, senza direzione e scopo, ridotta a puro sentimentalismo, a ciò che si sente, si prova. Anche a livello educativo si osserva tale equivoco sbilanciamento: gli affetti paiono non bisognosi di educazione.
Già nelle prime relazioni con i bambini piccoli, si educano i bambini sul piano cognitivo e -al limite- comportamentale, ma si ritiene l’affettività come non educabile, a favore di uno spontaneismo che si risolve in un puro soddisfacimento dei bisogni immediati. E tale atteggiamento è poi mantenuto anche lungo il percorso di crescita, dalla scuola che si occupa di educare cognitivamente e culturalmente, ma che riserva poco spazio alle dimensioni affettive e relazionali; alla formazione degli adolescenti, sempre più seguiti ed emancipati sul piano intellettuale e sempre più disorientati e in balia delle proprie dirompenti emozioni sul fronte relazionale ed affettivo. (Ultimamente qualche segnale sul fronte dell’educazione alle emozioni: importante dare nome alle emozioni e a usarle come veicolo di senso, visto come è difficile anche questo ma non ancora educazione agli affetti.)
È quantomeno curioso, se non inquietante, osservare come il mondo moderno, così attento a promuovere la crescita intellettuale delle nuove generazioni, così aperto all’investimento di energie sul piano culturale, si accontenti di formare personalità che pur essendo cognitivamente evolute, sono affettivamente incistate in uno stadio evolutivo infantile, in un’affettività primordiale e incontrollata, spesso fonte di sofferenza, se non di vera e propria patologia relazionale. Il mondo degli affetti chiede dunque di essere formato e per così dire raffinato da un lavoro educativo, non meno lungo e impegnativo di quello richiesto per la formazione delle menti e delle cognizioni. In caso contrario, il rischio incombente è quello di ridurre l’affetto all’emozione e dunque di far diventare lo spazio dell’incontro con l’altro uno spazio di esclusiva espressione dei propri bisogni e dei propri desideri.
Chiedersi il significato delle parole è importante (l’uso di parole su facebook lo dimostra, giovani spesso banalizzano amicizia tvb…uso del corpo di conseguenza) C’è infatti una notevole differenza di significato tra la parola emozione e la parola affetto anche se oggi si tende ad utilizzarle in maniera intercambiabile.
emozione
L’etimologia del termine emozione si ritrova infatti nel verbo latino ex- moveo, che significa muovere-fuori, uscire, sgorgare: l’origine della parola richiama quindi un movimento individuale che da dentro va verso fuori.
affetto
L’affetto invece già nell’etimologia Affectus (da afficio nella sua forma passiva) significa sono colpito, sono mosso da qualcun altro. L’affetto è prima di tutto un incontro con l’altro. Qualcosa o qualcuno colpisce il mio io ed io gli vado incontro. L’affetto ha una direzione ed esprime un legame con l’altro.
Nell’emozione emerge la sola dimensione individuale che sottolinea la valenza di bisogno da soddisfare, più che di esperienza di incontro con l’altro, con il diverso da me. L’emozione pone in primo piano la persona che la sperimenta.
Nell’affetto ci sono due persone che si incontrano.
L’esperienza affettiva mi supera e mi apre all’ignoto dell’in-contro (ossimoro che unisce i due concetti opposti di in = verso e contro) e della relazione, sia nei suoi aspetti di vincolo (re-ligo), sia di riferimento di senso (re-fero).
In quanto legame (ciò che lega) porta quindi con sé vincoli, limiti (Io sono ciò che non sei tu Tu sei ciò che non sono io) oltre che potenzialità e risorse e in quanto riferimento di senso rimanda ad altro rispetto a ciò che si osserva, rimanda cioè ad un legame che precede l’interazione in atto e ne costituisce il contesto significativo. Caratteristica della relazione, a differenza dell’interazione contestualizzata nel qui ed ora, sono dunque i tempi lunghi, è la storia personale e sociale che lega un uomo e una donna, due amici, un genitore e un figlio, un educatore e un discepolo. Parlare di relazionalità della vita affettiva significa pertanto uscire da una visione egocentrata e proiettare gli affetti in una prospettiva, che non può essere esaurita nell’istante dell’interazione di scambi immediati e di bilanci frettolosi, come quello che giudica la bontà di una relazione in base alla gratificazione immediata o da ciò che se ne ricava.
La dimensione relazionale è peraltro connaturata con l’umano: anche l’individuo più isolato e solitario porta i segni di un’appartenenza sociale, che è prima di tutto familiare (già presente nel nostro nome e cognome). Gli esseri umani sono dunque esseri relazionali. Rivendicare la natura relazionale degli affetti significa pertanto riconoscere la profonda verità di una caratteristica peculiare dell’essere umano, che non si spiega dentro ad una prospettiva individualistica (esempio in classe).
L’emotività inoltre segue il principio del piacere: ricerca delle emozioni positive ed evitamento di quelle negative, ricerca del piacere e rifiuto negazione della sofferenza.
L’affetto non necessariamente procura piacere: a volte chiede di rimandare il tempo in cui viene soddisfatto.
L’affetto è guidato da un’etica che può spingere anche a rinunciare al piacere immediato per il bene, il buono , il giusto. Nell’esperienza affettiva si può anche rinunciare al piacere, si può anche soffrire per il bene dell’altro (esperienza del sacrificio di sé del perdono dei torti subiti…).
La prospettiva secondo cui leggere l’esperienza affettiva e sessuale è molto diversa se fa perno sulla dimensione emotiva o affettiva in senso pieno. Un’autentica vita affettiva, come esperienza profondamente rispettosa dell’umano, non può dunque che essere:
un’esperienza di relazione (uomo è essere in relazione) congiunta ad una dimensione etica (uomo è unità di istinto e ragione di passione e impegno di piacere e responsabilità in quanto originato da un codice materno e da un codice paterno che lo costituiscono biologicamente, psichicamente, spiritualmente, socialmente)
Il corpo in relazione Date tali premesse, parlare di sessualità in prospettiva educativa e relazionale è già una scelta. Va detto che non esiste esperienza emotiva, né esperienza affettiva che non abbia una profonda e larga implicazione corporea e quindi di un corpo sessuato. Che il corpo sia una parte ineludibile del nostro io e della nostra individualità è un dato evidente ed innegabile. Basti pensare a come lo sviluppo della coscienza a partire dall’esistenza corporea e come la nostra identità si sviluppi attraverso le trasformazioni che il nostro corpo subisce a come il corpo possa esprimere il nostro benessere ed il nostro malessere al di là delle parole (vedi psicosomatica, esempio di anoressia- Anoressica con corpo trasmette sofferenza/con la parola va tutto bene), ma il punto sta proprio nella concezione di questo io: se lo intendiamo cioè come un io individuale ed astrattamente isolato dall’altro o se sostanzialmente come io-in- relazione. Si tratta cioè di capire se a dominare la scena è un corpo per le emozioni o un corpo per gli affetti. A partire da quanto detto fin qui, l’esperienza dell’emozione pare maggiormente riconducibile al corpo inteso in un suo primo significato individualistico-narcisistico. Non si fatica a trovarne espressione nel nostro contesto sociale: il corpo oggi è infatti vissuto spesso in termini narcisistici: il corpo è interpretato prevalentemente come un bene dell’individuo di cui godere, da curare, da coccolare, da tenere in forma, da esibire: pensiamo all’impressionante diffusione ed al successo sempre crescente di palestre, centri di benessere, beauty-farm e alla dominanza dell’immagine o meglio del look come condizione fondamentale per sostenere qualsivoglia esperienza socialmente accettabile. Come osserva Carmelo Vigna, tuttavia, “il corpo che mostriamo in ordine sostanzialmente per lo sguardo degli altri è divenuto il luogo disordinato dell’io. In questo senso il corpo dell’uomo contemporaneo sembra un luogo di contraddizione: servito e vezzeggiato dall’esterno, è invece sovente violato dall’interno perché i moti dell’animo vi spadroneggiano. Questo in qualche modo spiega i corsi e ricorsi dell’ossessione dietetica, l’affidamento alla chirurgia estetica, l’uso indiscriminato dei farmaci, la tentazione delle droghe, l’uso smodato della sessualità intesa come puro sfogo degli istinti, e via discorrendo. L’ordine del corpo in altri termini è un ordine che si deve fare e rifare in modo continuo perché l’interno tende costantemente a disfare l’esterno”. Il problema di questa prospettiva individualistico-narcisistica è dunque che si tratta di una prospettiva esterna, che non incontra e non si armonizza con la natura più profonda dell’uomo. La chiave di lettura per parlare del corpo, opposta a quella individualistico-narcisistica, è invece quella relazionale. Abbiamo visto come ciò che fa problema alla nostra cultura è proprio il riferimento ad altro fuori dal sé, al vincolo dei legami al senso del limite che inevitabilmente accompagna l’incontro con l’altro (tu sei ciò che non sono io). Parlare di corpo in relazione significa invece introdurre l’idea di corpo inteso come limite, confine con il quale continuamente fare i conti. Il paradosso di questa prospettiva è che proprio su questo limite intrinsecamente umano si colloca la più grande potenzialità, la più straordinaria risorsa della persona: solo in questa seconda prospettiva (che si basa sull’affermazione della natura relazionale dell’individuo) è infatti possibile interpretare il corpo come mediatore tra me e l’altro, come potente strumento di comunicazione (anche con la comunicazione non verbale, in particolare sessuale), come mezzo espressivo, come corpo dono, un corpo per gli altri.
Un’ultima considerazione: la generatività Il corpo ci parla del legame nella sua origine (vedi ad esempio come la somiglianza fisica ci parla del legame tra generazioni assomigli a tua nonna,, hai il naso di tuo padre) e nel suo scopo (il corpo nella sua differenza sessuale può procreare) . Il corpo in relazione ci parla dello scopo dell’esistenza umana, ossia la generatività. A fronte di una realtà culturale dove spesso ci si pensa autogenerati e forse proprio per questo spesso spaventati dalla differenza -se non addirittura violenti nei confronti di essa; a una cultura attraversata dalla fantasia onnipotente di superamento del limite (tra cui quello del genere di appartenenza) e poco interessata a fornire di senso e ad indicare obiettivi alle esperienze di vita degli individui, la concezione di corpo in relazione si propone come luogo dell’incontro tra le differenze orientato ad un obiettivo che si può tradurre nell’espressione generatività biologica e sociale: sappiamo infatti che la generatività è propria dell’incontro tra differenze e questo è vero sia a livello biologico (come avrete modo di trattare ampiamente durante questo corso), sia simbolico. La vera sfida culturale di oggi sta dunque nel recuperare il senso, l’obiettivo della vita umana, la sua più intrinseca funzione, ossia quella generativa. Erikson rimarcava come dal punto di vista psicologico, la tendenza fondamentale che segna l’età adulta è riassumibile nella generatività. Tale tendenza indica la capacità di uscire dalla narcisistica esclusiva preoccupazione di sé per prendersi cura delle nuove generazioni, non necessariamente nei termini della procreatività biologica. Condizione fondamentale perché l’adulto sia generativo è che egli abbia raggiunto un equilibrio tra dimensioni di bisogno individuale e dimensioni di responsabilità verso l’altro. Totale intimità e totale alterità sono infatti i due estremi che si toccano nell’ esperienza del generare .Gli aspetti individuali sono dunque fondamentali, ma non sufficienti per definire una piena identità adulta. Il superamento di una prospettiva individualistica è inoltre la condizione che consente di passare da una concezione di generatività tutta interna al nucleo familiare ad una concezione di autentica generatività sociale. St. Aubin, Mc Adams, e Kim descrivono la generatività sociale come interesse ad impegnarsi ad andare al di là di se stessi per promuovere le future generazioni. La presa in carico dei giovani, contribuisce al rafforzamento e alla continuità delle generazioni poiché fornisce guida e direzione, e si prende carico della crescita e del benessere non solo dei propri figli, ma anche degli altri giovani che appartengono alla medesima generazione di questi ultimi. Mentre la generatività biologica assicura la continuità del proprio patrimonio genetico, quella sociale si estende a tutti i ragazzi che devono diventare adulti: si può cioè considerare la capacità di “far crescere i figli altrui come se fossero i propri figli”. La stagnazione è soprattutto il fallimento della generatività sociale, perché essa minaccia il futuro dell’intera società. Educare alla generatività è dunque un compito fondamentale non solo per il bene dei giovani, ma dell’intera società. Come afferma Scabini, va detto peraltro che vi è una relazione reciproca tra generatività e paura della morte (il limite, la creaturalità): è la consapevolezza della fine che spinge ad essere generativi, e tutte le forme di generatività progressivamente favoriscono l’accettazione della morte facendo maturare l’amore per la vita. Drammatico dunque quando una società non è più generativa, perché paradossalmente ci sta dicendo che è una società che non è in grado di affrontare la sfida più importante ed ineludibile per l’essere umano, ossia la propria morte. La tentazione onnipotente di un corpo senza limiti, nemmeno quello della sua de- finizione sessuale, forse ci parla di questa paura inaffrontabile, fondamentalmente di una mancanza di speranza. In conclusione, sottolineare la natura intrinsecamente relazionale del corpo (diverso da oggetto narcisistico) è rifiutare l’attuale stravolgimento antropologico ossia una concezione di uomo che nel campo affettivo tende sempre più a diventare ciò che si sente, frutto di una separazione tra corpo e mente; una concezione dalla quale ciò che viene a mancare è l’idea stessa di Persona come essere umano con suoi attributi di dignità e libertà, in cui fisicità e spiritualità, natura e cultura sono ricondotti ad unità secondo una prospettiva che supera e trascende ogni deriva spiritualistica e materialistica, ma anche individualistica e collettivistica. Nella persona, coscienza, affetti e responsabilità sociale infatti non si contraddicono, ma sono dimensioni indispensabili per la piena realizzazione dell’uomo che, proprio in quanto persona, è fondamentalmente relazione con l’altro. Occorre dunque ribadire con forza che veramente degno dell’uomo è un’esperienza affettiva che non si riduce alla dimensione istintivo- biologica, ma al tempo stesso non la rinnega a favore di un astratto spiritualismo; è un’esperienza che trascende il determinismo dell’ordine biologico per approdare ad un orizzonte di libertà; è un’esperienza che è espressione della persona nella sua interezza, ossia dell’essere umano come essere individuale e sociale, dotato di istinto e di ragione, di passione e responsabilità. Rilanciare il tema della sessualità in prospettiva relazionale e della generatività come obiettivo intrinseco dell’esistenza è dunque la via privilegiata per dare ai nostri limiti un respiro di speranza e di piena realizzazione dell’esperienza umana ed è la condizione dell’autentica felicità. Non dimentichiamo che felix in latino risale a fuo greco che significa generare: Felice, fecondo, fertile hanno tutti la stessa radice. E questo non è affatto un caso. Il mio augurio è che ciascuno di noi possa prendere coscienza fino in fondo di quella misteriosa e meravigliosa eccedenza che il nostro corpo comunica e che ci indica la via per una vita profondamente felice.
Raffaella Iafrate
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